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Amina Crisma: Quale ruolo per la centralità della Cina nello spazio pubblico?


1. Dibattiti attuali ed esperienze trascorse.


È una preziosa occasione di confronto, ricca di fertili sollecitazioni, il dibattito “Sinologi della nuova era” promosso su Sinosfere da Marco Fumian, che ringrazio per avermi invitato a parteciparvi. Per una curiosa coincidenza, sull’ultimo numero cartaceo uscito adesso di Inchiesta, a cui collaboro da un decennio e che proseguirà d’ora in poi la sua vita esclusivamente nella forma online già attiva da tempo, appare il consuntivo di una costante attenzione al mondo cinese che data dalla nascita stessa della rivista, avvenuta cinquant’anni fa, e che fra l’altro si concretizzò nel 1970, nel 1971 e nel 1973 in tre pionieristiche spedizioni in Cina dei suoi fondatori.1)

Una riflessione su tale esperienza, nel momento in cui se ne chiude una determinata fase e in cui si aprono nuovi e promettenti spazi di discussione, credo possa rivestire un qualche interesse in riferimento al tema di cui qui si tratta, non tanto per una forma di civetteria antiquaria ascrivibile alla ragazza del secolo scorso che, ahimé, indubbiamente ormai sono, quanto piuttosto perché alcuni elementi di un suo provvisorio bilancio si possono, a mio avviso, utilmente comparare con quelli dell’odierna conversazione che si va svolgendo su Sinosfere. Quest’esame può forse in qualche misura giovarci a delineare un’analisi che sia riferita non solo al fondamentale versante delle acquisizioni di carattere critico e metodologico, non solamente, insomma, alla rilevanza degli esiti teoretici sin qui conseguiti dalla discussione in corso, ma che si volga anche a una pragmatica considerazione di un aspetto che finora non mi pare si sia evidenziato, e che sintetizzerei in questi termini:


qual è l’impatto reale di questi nostri discorsi sul mondo circostante (ambienti accademici, spazi della comunicazione, dell’educazione, della cultura diffusa, spazi pubblici in genere)? In una parola, qual è la loro effettiva capacità di incidere significativamente nell’agorà, sulla coscienza collettiva?


Provo a riformulare la questione che intendo proporre all’attenzione prendendo le mosse dalle parole pregnanti di Gaia Perini nel suo intervento su Sinosfere del 28 febbraio, che sottoscrivo toto corde: “la Cina è al centro di un’evoluzione globale che riguarda l’umanità tutta, e che resta solo in parte intelligibile dal pertugio di saperi frammentati”. Ecco, di questo si tratta, a mio parere, quando ci si interroga sul ruolo presente e futuro del sinologo: si delinea qui un compito che eccede di gran lunga l’ambito di uno specialismo, anche se indubbiamente ne postula un preciso e specifico contributo. Esso richiederebbe l’impegno condiviso di vasti cantieri intellettuali (i “sodalizi ibridi” capaci di “spaziare, contaminare, deragliare” di cui Gaia ci parla) e implicherebbe la configurazione di metodi di elaborazione adeguati alla complessità di tale prospettiva, e dunque non settoriali né parcellizzati, ma quanto mai aperti, dialogici, interdisciplinari, interattivi.


Ebbene, se di questo si tratta, come credo, la domanda che ne consegue, a mio avviso, è la seguente:


come e quanto la percezione della centralità della Cina per il destino di tutti e la conseguente esigenza di costruire modalità interpretative, discorsive e comunicative adeguate a tale cruciale rilevanza riescono concretamente a inscriversi nella consapevolezza diffusa, dentro e fuori l’università, negli scenari di pubblico dibattito di questo nostro Paese?


È a questa domanda che tenterò di offrire qualche provvisoria risposta, sulla base di quanto mi è stato dato finora di osservare in un trentennio di attività di divulgazione e di promozione di confronti interdisciplinari e interculturali che mi hanno dato modo di incontrare non solo studenti e colleghi, ma anche una molteplicità e una varietà di interlocutori diversi per età, ascendenze, condizioni, appartenenze, propensioni, letture.2)


2. Una discussione stimolante, e i suoi esiti.


Indubbiamente è una ricca varietà di stimolanti punti di vista a emergere in “Sinologi della nuova era”: una varietà decisamente incomprimibile in una schematica rappresentazione. E tuttavia, è a mio avviso importante segnalare in particolare un aspetto che mi pare accomuni significativamente, pur con differenti declinazioni e accentuazioni, voci diverse che vi sono intervenute, da Marina Miranda a Ivan Franceschini, da Daniele Brombal a Monica De Togni, ossia il netto rifiuto di ridurre la sinologia all’esercizio di uno “specialismo senz’anima”, per riprendere una ben nota definizione weberiana. All’esortazione a promuovere, difendere e valorizzare l’irrinunciabile funzione critica del nostro mestiere e delle nostre competenze – una funzione che, come ci rammenta il contributo di Maurizio Scarpari, è pericolosamente insidiata da preoccupanti condizioni di censura e di autocensura – si affianca l’invito a “costruire ponti con la dinamite”, come dice Simone Pieranni, ossia a rapportarci con interlocutori molteplici, a configurare “sodalizi intellettuali ibridi” superando la frammentazione dei saperi, come propone Gaia Perini nell’intervento già prima richiamato, e a mettere quindi in gioco nel dibattito pubblico le acquisizioni di cantieri interdisciplinari e “meticci” di lavoro.3)

Ne deriva, mi sembra, una constatazione della ineludibile politicità del nostro ruolo, che non equivale a faziosità o a parzialità settaria, come pretendono gli assertori di sedicenti asettiche “neutralità” (che a ben vedere in effetti equivalgono a dissimulate e non dichiarate prese di posizione), poiché, come ci ricorda Fabio Lanza nel suo denso contributo, la sinologia non è un’isola, non è una corporazione a sé stante di studiosi di un presunto pianeta alieno. E dunque se ne desume che ai sinologi, come a qualsivoglia altra figura intellettuale, ineriscono inevitabilmente delle decisioni e delle scelte. Una scelta a parer mio assai auspicabile – e che ritengo anzi intimamente coerente con il nostro Beruf – è quella di assumerci il compito, morale e politico, di demistificare il potere e le narrazioni che ad esso sono funzionali.


Ce lo ricordano le parole di un compianto amico e maestro, Paolo Prodi, che fra l’altro nelle sue ultime pagine aveva espresso (cosa davvero piuttosto rara nel panorama italiano) una lucida consapevolezza delle vaste e profonde implicazioni problematiche dell’attuale centralità della Cina nell’orizzonte globale:


“Il nostro mestiere non può che consistere, più che nello studio del passato, nella de-mistificazione o de-legittimazione del potere, in tutte le sue forme.”4)

Fra le narrazioni da decostruire integralmente funzionali al potere, un rilievo speciale rivestono quelle imperniate sul ben noto meccanismo di opposizione dualistica Cina/Occidente, che fra l’altro – come diversi interventi su Sinosfere hanno sottolineato – vanno sempre più assumendo toni aggressivi e inquietanti da guerra fredda (e tale scontro di propaganda ha fra l’altro rilevanti conseguenze sugli atenei nel mondo, come Antonella Ceccagno e io abbiamo cercato di mostrare in un recente articolo su Inchiesta). Da un lato esse occultano la materiale unità e la stretta interconnessione dell’unico, onnipossente e onnivoro sistema/mondo in cui viviamo, il capitalismo globale di cui la Cina è non solo parte integrante bensì fondamentale centro propulsivo, dall’altro fanno sparire dalla vista le diversità infraculturali, ossia la pluralità dei soggetti concreti, donne e uomini in carne ed ossa, che abitano il tianxia, e le corpose differenze delle loro situazioni e condizioni, materiali e spirituali, di genere e di classe. Essendo io una ragazza del secolo scorso, come ho già detto, e coerentemente con la storia passata e presente di Inchiesta, resto pervicacemente convinta che la distinzione sfruttati/sfruttatori, oppressi/oppressori, bastonati/bastonatori sia tutt’altro che desueta, nonostante ogni magniloquente essenzialismo culturale, sotto qualsiasi cielo e ad ogni latitudine; aggiungo inoltre di diffidare di ogni forma di sciovinismo, di nazionalismo, di aggressiva retorica identitaria, occidentale o orientale che sia.


Così, mi riconosco integralmente nella prospettiva dei Critical China Scholars che Fabio Lanza limpidamente ci illustra, a partire dal presupposto che “alla radice delle ingiustizie nel mondo ci sono sistemi politici ed economici — capitalismo, autoritarismo, imperialismo, razzismo, e patriarcato — che trascendono i confini nazionali”, e nel corollario che ne scaturisce: “ci opponiamo alla retorica razzista e guerrafondaia che demonizza la Cina e i cinesi, ma siamo nello stesso tempo solidali con i movimenti che resistono all’oppressione dello stato cinese”. È un programma che mi sembra più che mai condivisibile, ma se devo pensare a una sua concretizzazione, mi pare di intravederne le potenzialità future ed eventuali forse in un ambito di links internazionali piuttosto che sul nostro patrio suolo, perché l’atteggiamento sin qui prevalente nel panorama nostrano, nei confronti di queste come delle altre sollecitazioni provenienti dal dibattito di Sinosfere,è una sostanziale e generale distrazione.


Mi colpisce la sproporzione che si può constatare fra l’importanza cruciale di questa discussione e delle proposte che ne emergono, da un lato, e la sorda e impenetrabile indifferenza con cui vengono accolte. Come se cadessero nel vuoto, come se andassero a sbattere contro un muro di gomma, come se non riguardassero nessuno salvo coloro che se ne fanno latori, sicut voces clamantes in deserto.


Mi auguro di essere smentita in un futuro che auspico quanto mai vicino, ma è un dato di fatto di cui non si può non prendere atto che è finora invariabilmente questo l’esito deludente, ogni volta che si cerca di promuovere un confronto approfondito, largo e aperto sulla Cina, che tenga conto della sua irriducibile complessità. Chissà perché, questo tema non riesce mai a conquistarsi l’attenzione che meriterebbe, e l’esperienza di dieci anni di tentativi condotti dall’Osservatorio Cina di Inchiesta purtroppo conferma inequivocabilmente questo desolante risultato.5)


3. L’esperienza dell’Osservatorio Cina di Inchiesta.


Mi siano consentite due brevi parole su tale esperienza, non certo per gusto rievocativo, ma perché mi sembra che essa possa offrire qualche utile spunto di riflessione, ai fini delle considerazioni che qui si vanno svolgendo. L’Osservatorio Cina di Inchiesta, che si è sviluppato in questo decennio sia sulla sua versione cartacea sia su quella online, ha cercato di raccogliere, rilanciare e approfondire l’interesse per il Paese di Mezzo sorto con la nascita stessa della rivista all’inizio degli anni Settanta, e ha dedicato un costante e cospicuo impegno a costruire interazioni fra sinologia e ambiti disciplinari diversi, e collegamenti fra vecchie e nuove generazioni di studiosi. Il ventaglio tematico esplorato spazia dalle questioni del lavoro a quelle ambientali, dai modelli di sviluppo ai diritti, dai problemi dei migranti a quelli delle minoranze, dal welfare alle disuguaglianze, dai nodi potere/società e rapporti passato/presente a quelli delle relazioni internazionali, dalle concezioni dell’ordine mondiale alle reinterpretazioni post-moderne delle tradizioni, senza dimenticare “la Cina in Italia”, con indagini sull’imprenditoria cinese nei distretti industriali italiani e iniziative che hanno coinvolto giovani cinesi di seconda generazione. Si è tentato inoltre di decostruire gli stereotipi intorno all’Alterità Cinese, da una parte valorizzando il ruolo critico della filologia e dall’altra promuovendo larghi confronti con storici, antropologi, sociologi, giuristi, filosofi, fra cui si annoverano maestri di interculturalità quali PierCesare Bori, Giangiorgio Pasqualotto, Nicola Gasbarro. Si sono promossi dibattiti e si sono costruiti documentati dossier su argomenti quali il “ritorno a Confucio” nella Cina d’oggi,6) il Memorandum sulla Nuova Via della Seta,7) il controverso ruolo degli Istituti Confucio,8) al cui proposito il direttore di Inchiesta, Vittorio Capecchi, sottolineava:


“il motivo che spinge la redazione di Inchiesta e il suo direttore a pubblicare questo dibattito è che non si tratta di un dibattito “interno” al mondo accademico e in particolare a quella parte di mondo accademico che si occupa di studi sulla Cina: esso coinvolge chiunque abbia un ruolo nella ricerca e nella università italiana.”9)

Ebbene, a fronte di questa profusione ininterrotta di impegno, definire modesti i risultati ottenuti sul piano dell’incidenza nell’agorà è ricorrere a un grazioso eufemismo. Intendiamoci: è certamente un inestimabile conseguimento l’aver costruito e allargato una rete di autorevoli e generosi contributori con cui c’è un dialogo costante, che è in continua espansione, e dove accanto a nomi noti hanno spazio giovani ricercatori.10) Non sarei confuciana se non apprezzassi debitamente i piaceri dell’amicizia, dello studio condiviso, della conversazione, nonché la gioia di “far fiorire i talenti dell’impero”. Detto questo, penso anche, in accordo con i maestri antichi, che l’autocoltivazione del junzi, “l’uomo esemplare”, non sia fine a se stessa, ma sia necessariamente volta a incidere sullo spazio circostante. Sotto questo profilo, è dunque innegabile che “continuiamo a raccontarcela fra noi”: l’impatto esterno, nonostante ogni sforzo, rimane pressoché inesistente, e aumenta la sensazione di avere attorno un muro di sostanziale indifferenza.


Quest’impressione mi sembra confermata, fra l’altro, dalla risonanza pressoché nulla invariabilmente ottenuta da tutti i casi di rimostranza puntualmente ripresi e rilanciati su Inchiesta: dalla lettera aperta del luglio 2018, primo firmatario Ivan Franceschini, intitolata “Perché è pericoloso prendere la Cina come modello di gestione dei flussi migratori”,11) all’appello internazionale in favore dell’illustre giurista Xu Zhangrun, licenziato, com’è noto, per aver criticato il mandato a vita assunto da Xi Jinping (in tutta Italia solo una decina i firmatari),12) dalla lettera aperta del Presidente dell’École des Hautes Etudes di Parigi in pro dello studioso uiguro Tiyip Taspholat13) all’appello della Fondazione Alexander Langer “4 giugno: da Tian Anmen a Hong Kong, prima che sia troppo tardi”.14)

Mere disattenzioni, o non piuttosto indizi di una pericolosa insensibilità, se non anzi di una – non tanto impercettibile – deriva in direzione di simpatie autoritarie?


4. Clamore di Grandi Narrazioni.


Insomma, c’è tutto un repertorio lessicale – da Tian Anmen a Tibet, da uiguri a Hong Kong – che sembra essersi eclissato dal proscenio, che sembra letteralmente sparito dal vocabolario comune (ne hanno trattato, fra l’altro, in interventi pregnanti, Attilio Andreini e Fiorenzo Lafirenza15)). E questo silenzio e questo vuoto appaiono occupati in crescente misura dalla retorica magniloquente intorno alle Magnifiche Sorti e Progressive della Sinità Millenaria, sempre più possente e sempre più influente, in cui si fonde la celebrazione dei successi economici, dell’“armonia” autoritaria e del protagonismo della RPC su scala globale, e alla quale danno voce garruli autopromossi “esperti”. Essa si giova abilmente di difettivi sillogismi che screditano, mediante accorte strategie discorsive, ogni resistenza e ogni obiezione, per cui ogni seppur minima critica nei confronti della attuale leadership della RPC equivarrebbe ipso facto a una deprecabile sinofobia. Ne ho potuto misurare l’efficacia in una quantità di confronti con i pubblici più vari, e mi impressiona sempre la sua grande capacità di fascinazione, a destra come a sinistra, sia nei confronti degli ammiratori della potenza di uno Stato forte, per cui la crescita del PIL cinese è l’assoluta misura di ogni bene sotto il cielo, sia di coloro che hanno sempre ritenuto che “democrazia” e “pluralismo” siano vacue parole prive di valore, e che hanno sempre preferito Lenin a Rosa Luxemburg. Ma, al di là di queste curiose convergenze, è sconcertante che tale genere di Grandi Narrazioni sia divenuto a tal punto senso comune da aver corso incontrastato su grandi reti televisive nazionali.16)

Credo ci sia bisogno di modi diversi di raccontare la Cina nello spazio pubblico: modalità non stereotipate, non costrette dalle inerzie di luoghi comuni, che non la riducano a un feticcio autoritario, a un reificato monolite alieno, ma che si sforzino di coglierne l’irriducibile complessità, senza demonizzazioni e senza mitizzazioni. Che non riducano la sua immensa civiltà nello stereotipo del dispotismo orientale, vuoi per deprecarlo vuoi per magnificarlo, ma che ne colgano la natura plurale di campo di tensioni, restituendo visibilità all’anticonformismo e allo spirito di rimostranza nei confronti del potere che l’hanno da sempre percorsa, rintracciando nelle sue antichissime fonti risorse per poter oggi formulare una nozione più ampia e inclusiva di fraternità umana, recuperando tutta la carica inattuale, progettuale, utopica, dirompente di dense parole antiche come renyi, “senso dell’umanità e della giustizia”.17)

E ancora, credo ci sia bisogno di modi di raccontare la Cina ispirati all’atteggiamento problematico del “fare inchiesta” (ricordate il motto famoso “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola?”). Che tale genere di narrazione sia possibile lo attesta, ad esempio, Project China, documentario appena uscito di due giovani autori, Elisabetta Giacchi e Thomas Saglia, che compendia in un’ora due anni di ricerche, e che offre un caleidoscopio di sguardi sulla Cina spiazzante, non improntato a facili e sbrigative risposte, ma a domande che rimangono aperte, e che via via si approfondiscono, e portano a nuove scoperte.18)

Anche i fondatori di Inchiesta che andarono in una Cina quanto mai remota da quella attuale cinquant’anni fa non si accontentavano degli slogan, erano consapevoli dei limiti dei loro strumenti interpretativi e dell’irriducibile complessità della realtà con cui tentavano di misurarsi; da quella esperienza trassero, come mi dicono, “un bagaglio di interrogativi aperti”. Un’affinità con le propensioni degli autori di Project China che mi pare significativa, dato che l’esperienza di questi giovani è maturata in modo totalmente indipendente, e che mi conferma nella convinzione che “amare la Cina”, in fondo, altro non sia che questo: interrogare tale universo senza timore di farsene spiazzare e sconcertare, e rammentando, con Hannah Arendt, che comunque si amano non le collettività, ma le persone: esistenze e soggetti concreti di cui le grandi astrazioni reificanti tendono a cancellare la percezione.19)


Amina Crisma ha studiato all’Università di Venezia dove ha conseguito le lauree in Filosofia e in Lingua e Letteratura cinese, e il PhD in Studi sull’Asia orientale. Dal 2007/8 insegna Filosofie dell’Asia orientale all’Università di Bologna, dopo aver insegnato per un decennio Sinologia all’Università di Padova, e Storia delle Religioni della Cina all’Università di Urbino. Oltre a numerosi contributi in opere collettanee, fra cui Réformes (Berlin 2007), Per una filosofia interculturale (Milano 2007), La Cina (Torino 2009), In the Image of God (Berlin 2010), La filosofia e l’altrove (Milano 2016), ha pubblicato i volumi Il Cielo, gli uomini (Venezia 2000), Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica (Padova 2004), Neiye, il Tao dell’armonia interiore (Milano 2015), Confucianesimo e taoismo (Bologna 2016). Fra le riviste a cui collabora, vi sono Inchiesta, Cosmopolis, Giornale critico di storia delle idee, Parolechiave, Prometeo, Études interculturelles. Fra le sue traduzioni e curatele vi è Storia del pensiero cinese di Anne Cheng (Torino 2000).


Articolo apparso su:



In "Sinologi nella nuova era"

1. Amina Crisma, “La Cina su Inchiesta. Uno sguardo retrospettivo, e qualche considerazione sull’attuale stato dell’arte”, Inchiesta, anno 50, 210, ottobre/dicembre 2020, 75-81 (anche in www.inchiestaonline.it).

2. Risale agli anni Novanta, ad esempio, il progetto “La scuola dell’interculturalità” (che ho ideato e promosso con Renza Ravagnan, Renata Firpo, Ester Geremia) nel cui ambito fra l’altro Wang Meng, insieme a Fiorenzo Lafirenza, che aveva appena tradotto e curato il suo Dura la pappa di riso (Cafoscarina 1998), incontrò cittadinanza e studenti al liceo Stefanini di Mestre.

3. Va rilevato che le attuali condizioni di lavoro all’università non facilitano certo tale prospettiva: cfr. Luca Baldissara, “Lavorare in università”, Inchiesta, anno 50, 210, ottobre/dicembre 2020, 33-37 (anche in www.inchiestaonline.it).

4. Paolo Prodi, Homo europaeus (Bologna: Il Mulino, 2015), 11. La scomparsa di Paolo Prodi ha purtroppo interrotto una nostra conversazione sulla questione della Cina i cui interrogativi problematici mi pare restino tuttora aperti. Cfr. Amina Crisma, “Fine della rivoluzione e tramonto dell’Occidente. A chi andrà il Mandato celeste?”, 17 giugno 2015, www.inchiestaonline.it; Ead., “In ricordo di Paolo Prodi”, 18 dicembre 2016, www.inchiestaonline.it. Si veda inoltre, nel medesimo sito, la rubrica “Paolo Prodi e la rivista Inchiesta”.

5. Amina Crisma, “Hong Kong non è su un altro pianeta: e allora perché questo silenzio?”, 2 luglio 2020 (www.inchiestaonline.it).

6. Amina Crisma (a cura di), “Ritorno a Confucio nella Cina d’oggi”, dossier e dibattito interdisciplinare, gennaio/aprile 2016, www.inchiestaonline.it.

7. Maurizio Scarpari, “Timeo Danaos et dona ferentes”, “In margine alla visita di Xi Jinping in Italia”, “Inciampi e delusioni lungo la Via della Seta”, marzo/settembre 2019, www.inchiestaonline.it; Amina Crisma (a cura di), dossier “La Nuova Via della Seta”, con interventi di Alessia Amighini e Ivan Franceschini, Inchiesta 205/2019.

8. Un dibattito aperto da Maurizio Scarpari, “Istituti Confucio e libertà accademica”, 29 settembre 2014; cfr. Amina Crisma, “Hong Kong, la Cina, gli IC e noi”, 16 dicembre 2019; “Gli IC e il soft power”, 3 ottobre 2014, www.inchiestaonline.it.

9. Vittorio Capecchi, “I testi del dibattito sugli Istituti Confucio, la Cina e noi”, 22 dicembre 2019, www.inchiestaonline.it.

10. Nell’impossibilità di elencarli qui tutti (in proposito rinvio a “La Cina su Inchiesta” già citato) mi limito ad evocarne a titolo esemplificativo almeno alcuni: Alessia Amighini, Attilio Andreini, Sabrina Ardizzoni, Ester Bianchi, Umberto Bresciani, Daniele Brombal, Raimondo Bultrini, Renzo Cavalieri, Antonella Ceccagno, Davide Cucino, Laura De Giorgi, Ivan Franceschini, Marco Fumian, Chiara Ghidini, Luigi Moccia, Massimo Mori, Ignazio Musu, Antonio Olmi, Paola Paderni, Angela Pascucci, Gaia Perini, Federico Picerni, Claudia Pozzana, Alessandro Russo, Guido Samarani, Maurizio Scarpari, Paolo Scarpi, Flavia Solieri, Luigi Tomba, Wang Hui…

11. 8 luglio 2018, www.inchiestaonline.it.

12. 17 aprile 2019, www.inchiestaonline.it.

13. Hubert Bost, 10 ottobre 2018, www.inchiestaonline.it.

14. 3 giugno 2020, www.inchiestaonline.it.

15. Fiorenzo Lafirenza, “La Cina d’oggi non è solo successi: dobbiamo trasmettere senso critico”, 16 dicembre 2019, www.corriere.it.

16. Un episodio in tal senso eloquente si è avuto su Omnibus de la Sette del 24 gennaio scorso, dove la rappresentazione autocelebrativa che offre di sé il governo della RPC ha avuto spazio senza alcun contraddittorio (cfr. Amina Crisma, “Verso un’egemonia della Grande Narrazione cinese?” 26 gennaio 2021, www.inchiestaonline.it.

17. Amina Crisma, “Umanità nelle tradizioni di pensiero cinesi”, Parolechiave 57/2017, 109-130.

18. Thomas Saglia, Elisabetta Giacchi, “Project China. Un progetto chiamato Cina”, 7 marzo 2021; Amina Crisma, “Project China, un caleidoscopio di sguardi”, 24 febbraio 2021, www.inchiestaonline.it.

19. Hannah Arendt, Ebraismo e modernità (Milano: Unicopli 1986), 226.

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